In questo periodo di crisi coronavirus viene proposta la riapertura di piccoli ospedali. Prima di tornare indietro, perché di tornare indietro si tratterebbe, bisogna capire su quali dati si basa questa proposta.
L’indicazione alla chiusura dei piccoli ospedali è data dalla constatazione che, per poter trattare adeguatamente le patologie che necessitano di ricovero ospedaliero, è indispensabile che al presidio afferisca un numero di casi adeguato, e questo vale sia per patologie più rare e complesse da fare afferire ai centri di riferimento (HUB), sia per patologie meno gravi, da far afferire ai centri di base (SPOK)E. Esiste una letteratura scientifica che porta dati a supporto di questo tipo di organizzazione.
Credo che l’emergenza coronavirus abbia dimostrato come il punto debole sia la mancanza della medicina del territorio e dell’organizzazione in rete, non quella di piccoli ospedali. Se piccoli ospedali si sono utilizzati durante l’epidemia – mi riferisco ad esempio al Piemonte – è stato per sopperire alla mancanza della rete territoriale, ed in alcuni casi il ricovero in ospedale può essersi rivelato più dannoso che benefico. E’ sotto gli occhi di tutti che diagnosi e trattamenti a domicilio avrebbero evitato contagi, permesso un riconoscimento più precoce della malattia e forse evitato in molti casi la progressione a forme più gravi che hanno necessitato del ricovero in terapia intensiva. Se a livello ospedaliero qualcosa è mancato, è stata la carenza di letti in terapia intensiva; e le terapie intensive non si possono certo immaginare negli “ospedali sotto casa”.
Quindi proprio alla luce di questa esperienza si dovrebbe ripartire 1) organizzando la rete del territorio (medici di medicina generale, pediatri di libera scelta, servizi di prevenzione, case della salute, consultori, ecc.), 2) riorganizzando la rete degli ospedali, che significa identificare con chiarezza i centri HUB ed i centri SPOKE in base alle esigenze del territorio, 3) organizzando, mediante percorsi ben definiti, l’integrazione delle cure fra territorio ed ospedale.
In questi ragionamenti deve anche essere inserita la riflessione sui Punti Nascita. In anni recenti si è perseguita una politica di chiusura dei Punti Nascita di piccole dimensioni, almeno quelli in cui si effettuano meno di 500 parti /anno. Tornare ad aprirli, come si sta ventilando di questi tempi, sarebbe un grave errore ed un rischio per la salute delle mamme e dei bambini. Bisogna invece anche in quest’area ripensare ad una organizzazione in rete, che tenga conto del fatto che la maggioranza delle gravidanze e dei parti sono fisiologici ed una minoranza, peraltro in aumento, presentano invece fattori di rischio o patologie talora anche molto gravi. Offrire a tutte lo stesso tipo di assistenza rappresenta una inappropriata medicalizzazione dell’evento nascita per le prime e colposa insufficienza di cure per le altre. Bisogna da qui partire se si vuole garantire una assistenza ottimale per le mamme e per i loro bambini. I luoghi e le figure professionali più adeguati per seguire le gravidanze ed i parti fisiologici sono diversi rispetto a quelli a cui devono essere riferite le gravidanze con patologie materne e/o fetali. In quest’ottica è indispensabile prevedere anche una efficiente organizzazione di eventuali trasferimenti, talora in urgenza, delle gestanti da centri a bassa intensità di cure ai centri di riferimento.
In conclusione, credo che la diatriba su grandi e piccoli ospedali debba essere superata ricorrendo a modelli organizzativi meno ospedale-centrici, più integrati e che si basino su valutazioni oggettive della loro efficacia ed efficienza.
Tullia Todros
Già Professore Ordinario di Ginecologia e Ostetricia e Direttore Struttura Complessa di Ginecologia e Ostetricia – Università di Torino
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