LIBRI, MASSIMO BORGHESI “LA TERZA ETÀ DEL MONDO. L’UTOPIA DELLA SECONDA MODERNITÀ”
di Nicola F. Pomponio – Il senso dell’ultima opera di Massimo Borghesi, professore di Filosofia morale presso l’Università di Perugia, è tutto contenuto nei due ordinali del titolo e del sottotitolo.
L’idea della “terza età del mondo” come compimento della storia e inizio di un regno dello Spirito, dopo quello del Padre (ebraismo) e del Figlio (cattolicità medievale), in cui tutte le forme concrete della religione cristiana si annullano in una fratellanza universale e nell’effusione del Paraclito, venne proposta per la prima volta dall’abate Gioacchino da Fiore nel XIII secolo. Questo sogno gnostico-millenaristico e il suo sviluppo nella riflessione occidentale è stato analizzato con acume e profondità a tutt’oggi insuperata dal gesuita francese Henri De Lubac.
A partire da De Lubac, Borghesi approfondisce la tesi della secolarizzazione come svolgimento dell’ideale florense e quindi della modernità come sviluppo autonomo da un Cristianesimo ereticale di cui mantiene, trasformandola, la promessa di realizzazione del regno di Dio sulla terra. Il testo si sofferma così non solo sulle posizioni di De Lubac ma anche su quelle, affini, di Karl Loewith e su quelle contrarie di Blumenberg. Per Borghesi, al termine di una attenta e ponderata disamina delle posizioni di questi autori (ma anche di Taubes, Voegelin, von Balthasar, Del Noce e altri) si potrà parlare di secolarizzazione, in quanto “modello di salvezza affine a quello cristiano proprio per potersi opporre ad esso … come metamorfosi della gnosi e non già come traduzione secolare di contenuti cristiani”.
L’autore istituisce così un rapporto complesso e delicato tra Cristianesimo e modernità; il pensiero moderno nel suo movimento di immanentizzazione di idee, concetti, attese, speranze cristiane incontra e sviluppa temi gioachimiti ponendoli definitivamente al di fuori del contesto cristiano. Il libro analizza meticolosamente i luoghi in cui anche piccole variazioni di significato dei termini portano a sviluppi impensati e importanti. Da questo punto di vista grande spazio è dato a un pensatore che non è molto considerato, a torto, fondamentale nello sviluppo del pensiero occidentale: Gotthold Ephraim Lessing.
Contrariamente alla ricostruzione di De Lubac, che nomina e analizza Lessing ma senza dargli un rilievo notevole, Borghesi individua in lui e nella sua ripresa del Vangelo Eterno, ne “L’educazione del genere umano”, un punto di svolta fondamentale nella storia della modernità. Quando Lessing, citando i “visionari del XIII e XIV secolo” sostiene che “non erano animati da cattive intenzioni quando insegnavano che il Nuovo Testamento doveva diventare altrettanto antiquato come lo è diventato l’Antico” (paragr. 88), sta introducendo all’interno di una temperie culturale al tramonto dell’illuminismo una visione storica ed escatologica che, fatta propria dal nascente Romanticismo, segnerà una frattura fondamentale nello svolgersi della modernità stessa.
Qui arriviamo all’ordinale del sottotitolo. Borghesi parla di “seconda modernità”. Per l’autore la grande frattura della storia europea è rappresentata dalla Riforma Protestante, dalla rottura della Respublica christianorum e dalle conseguenti guerre di religione che insanguinarono il continente almeno fino alla pace di Westfalia (1648). Questa prima modernità, si noti che la periodizzazione di Borghesi è del tutto analoga a quella utilizzata dallo storico Greengrass ne “La Cristianità in frantumi”, nasce da questioni interne al Cristianesimo e non riesce a trovare soluzioni soddisfacenti nel Cristianesimo stesso, per cui a partire dalla seconda metà del ‘600 e per tutto il ‘700 la riflessione lentamente cambia portando dalla preminenza della discussione teologica a quella della critica, sempre più corrosiva e scettica, del deismo e dell’illuminismo nei confronti della religione.
Lessing si situa quindi saldamente all’interno della seconda modernità (post Westfalia), ma al tornante tra illuminismo e romanticismo. La sua visione storica tripartita verrà sistematizzata e condotta alla più ammirevole coesione interna dal panlogismo hegeliano. Borghesi dedica molte pagine, con un interessante excursus sull’arte moderna, al pensiero di Hegel, visto come il punto più alto raggiunto dalla interpretazione trinitaria della storia a partire da una cristologia che ha come approdo la trasformazione dello Spirito (Santo) in Spirito (del mondo). Sono pagine di grande interesse dove l’autore, con una sensibilità quasi sismografica, registra ogni più piccolo slittamento nel significato e nell’uso dei termini dalla giovinezza fino alla grandiosa e, per molti versi, inquietante sistematizzazione finale berlinese.
La fondamentale categoria hegeliana dell’Aufhebung (superamento) diventa in queste pagine lo strumento principe con cui Borghesi analizza la riflessione del filosofo sulla figura del Cristo, sul rapporto fede e filosofia e sul problema del male ma ritorna qui la questione accennata fin dalle prime pagine: “la <teodicea> hegeliana apre…le <porte degli Inferi>, legittimando nella cultura tedesca dell’Ottocento, la positività del negativo” (p. 32). Questa analisi così ricca di sfumature è la stessa che l’autore utilizza nei confronti della sinistra hegeliana (di cui è ricostruita la parabola con un’attenzione rara nella letteratura italiana) e di Marx di cui emergono le dipendenze e le contrapposizioni (proprio perché ne dipende) nei confronti non tanto di Feuerbach, questione ampiamente acquisita e dibattuta negli studi relativi, quanto di Stirner. Sul rapporto Marx-Stirner e Marx-Nietzsche il testo ci porta al termine dell’Ottocento e lascia intravvedere quelle tragedie novecentesche che in nome di un Terzo Regno (Drittes Reich) e di un Paradiso sulla terra hanno realizzato le catastrofi più terribili della storia dell’umanità. Di notevole interesse è anche l’analisi dedicata all’ideologia italiana da Mazzini a Mussolini posta in appendice al testo.
E’ evidente, da quanto fin qui scritto, che Borghesi si muove in un ambito tutto interno all’Europa germanica. Ed è questa una scelta senz’altro giustificata da un punto di vista sia storico, sia teoretico: non a caso parla di “via tedesca alla modernità”. Eppure nella sua periodizzazione storica, che come s’è visto è fondamentale nella ricostruzione dell’evoluzione culturale occidentale, vi è un “sovrappiù” di significato che non deve sfuggire. Parlare di due modernità non è qualcosa di legittimo solo per l’Europa continentale. Se si allarga lo sguardo alle isole Britanniche non può sfuggire quel movimento di evoluzione interno al protestantesimo di stampo calvinista che, seguendo Weber e Troeltsch, dopo la Rivoluzione inglese porta a un “neo-protestantesimo” e infine alla razionalità moderna. Un “neo-protestantesimo” che spesso giunge ad esiti che ben poco hanno a che vedere col pensiero di Calvino (come notò lo stesso Weber) ma che da Calvino prende impulso; un po’ come la riflessione hegeliana che da Lutero e attraverso Lutero si forgia per giungere a esiti che hanno ormai pochi punti di contatto con Lutero stesso.
In ambito anglosassone il sogno gioachimita non sembra svolgere un ruolo così importante come sul continente e, giustamente, nessuno degli autori citati da Borghesi se ne occupa. Vogliamo però evidenziare come nell’ambito di una Riforma non più legata al monaco di Wittenberg si prenda una strada diversa che porta ad una diversa modernità, quella anglo-americana. Preme quindi solo sottolineare come quella linea che De Lubac, attraverso infinite mediazioni, riflessioni, tradimenti e approfondimenti pone da Gioacchino da Fiore a Hitler (uno degli ultimi paragrafi della sua monumentale opera s’intitola non casualmente “Da Marx a Hitler”) è una possibilità di realizzazione del mondo moderno. Forse la più inquietante, ma senz’altro non l’unica. Il libro di Massimo Borghesi contribuisce in modo pregnante a descrivere come un aspetto della modernità si sia realizzato nella cultura dell’Europa occidentale segnandone, talvolta tragicamente, il destino.
Salvatore Coluccia, Virus e sapone
L’Accademia delle Scienze ha avviato una nuova serie di iniziative online per fronteggiare da un punto di vista culturale e scientifico l’emergenza sanitaria e il distanziamento sociale che essa impone. Il Socio Salvatore Coluccia ha videoregistrato un intervento dal titolo Virus e sapone
LIBRI, “L’ACCOGLIENZA DELLE PERSONE MIGRANTI. MODELLI DI INCONTRO E SOCIALIZZAZIONE”. LA RECENSIONE
AA.VV. (a cura di Tiziana Grassi), One Group Edizioni, L’Aquila, 2019 – Recensione di Nicola F. Pomponio
TORINO – Il corposo volume che si presenta ci appare come una grande, importante scommessa. In un duplice senso. Innanzi tutto in senso editoriale. Pubblicare un testo così complesso e sfaccettato è una fatica e un impegno senz’altro notevole per la casa editrice che l’ha curato (One Group Edizioni, una piccola casa editrice dell’Aquila ma con ottimi libri pubblicati). Ma la scommessa è ancor più importante dal punto di vista culturale e metaculturale. Il volume vede la luce in un periodo caratterizzato da contrapposizioni e lacerazioni importanti all’interno della società italiana sulla questione dell’immigrazione.
In questo contesto il bel libro prende posizione in modo netto e con dovizia di argomentazioni fin dal titolo. Non ci appare assolutamente casuale che in esso non si parli solo di migranti ma si utilizzi l’espressione “persone migranti“; quel “persone” apre immediatamente prospettive che i luoghi comuni e le aberrazioni xenofobe vogliono negare: i migranti sono persone esattamente come chi in questo momento sta scrivendo questa recensione (o chi la sta leggendo), sono persone come tutte le persone che quotidianamente s’incontrano, con i loro sogni, speranze, sconfitte e vittorie.
Sono persone da trattare come soggetti, non come oggetti, e trattare un uomo come soggetto significa “riconoscere che non lo si può definire, classificare, che è inesauribile, colmo di speranze e che, egli solo, può disporre delle sue speranze” (Mounier “Il personalismo”). Altrettanto importante il sottotitolo: la questione delle migrazioni è affrontata nella prospettiva dell’incontro (non dello scontro) e della socializzazione, della integrazione. Questi sono i due fili rossi, cioè i migranti come persone inserite in un processo di integrazione, che scandiscono tutti i numerosi interventi del volume. Il testo, con la prefazione del Presidente del Parlamento Europeo On. David Sassoli, è diviso in tre sezioni che affrontano la situazione attuale, le buone pratiche dell’integrazione e la questione del rapporto tra le migrazioni e le descrizioni nei mezzi di comunicazione.
Sono quasi cento interventi che restituiscono un’immagine incredibilmente ricca, densa, sfaccettata di questo fenomeno e che aiutano a comprendere sia le difficoltà sia le enormi potenzialità che l’arrivo dei migranti porta con sé nella nostra società. Giustamente il libro sviluppa una tesi espressa a chiare lettere dalla curatrice Tiziana Grassi: “non ha senso…interpretare e gestire le migrazioni in corso come evento straordinario o eccezionale congiuntura del momento” (pag.19). E se questa impostazione è corretta, come siamo profondamente convinti, diventa ancor più meschino e inconcludente, se non per chi mesta nel torbido, derubricare le migrazioni sotto il titolo della cosiddetta “sicurezza”.
Questa semplificazione non può comprendere né i drammi personali degli attori coinvolti né tantomeno la dimensione planetaria del fenomeno; si pensi all’esplosione demografica dell’Africa o ai nessi tra migrazioni e guerre o al rapporto tra crisi economiche (talvolta indotte proprio dall’Occidente) e migrazioni, per tacere della relazione con i cambiamenti climatici o dello sfruttamento che le nostre mafie (anche in combutta con malavitosi anch’essi migranti) fanno del lavoro di persone ridotte in schiavitù. Il quadro si complica immediatamente. Ridurre l’immigrazione a problema di sicurezza appare così non solo fuorviante ma, in ultima analisi, profondamente errato.
Il libro ha il pregio di raccogliere tante voci senza mai tacere le difficoltà che l’integrazione incontra nella nostra realtà; difficoltà concrete e difficoltà di comprensione quando ci s’imbatte in culture e visioni del mondo talvolta molto diverse dalla nostra. L’incontro con uno straniero, soprattutto in questi casi, non è mai facile ma, al contempo, può essere qualcosa di estremamente arricchente per l’intera società. Diventano così di notevole interesse le annotazioni su chi “ce l’ha fatta” scoprendo in tal modo altri aspetti dei fenomeni migratori in cui l’immigrato è liberato dal luogo comune del barcone alla deriva (troppo spesso nella narrazione giornalistica questa è l’unica rappresentazione data dell’immigrazione) e non solo si integra ma contribuisce attivamente, in prima persona al progresso materiale e spirituale della società.
Una società, quella italiana, sempre più anziana, con sempre meno figli e sempre più dipendente proprio dai fenomeni migratori che qualcuno invece vuole presentare come la fonte di ogni male, disconoscendo il lavoro prezioso che questi uomini e donne fanno quotidianamente contribuendo alla creazione della ricchezza nazionale. Diventa così importante il tema di come il fenomeno della migrazione venga narrato nei media.
La terza parte del libro è tutta dedicata a questo aspetto e la sua lettura risulta molto proficua per la quantità di nessi che vengono evidenziati. Non solo c’è stata in Italia una rapidissima evoluzione dell’atteggiamento dell’opinione pubblica nei confronti dei migranti (iniziata all’inizio degli anni ’90 con l’immigrazione albanese) ma lo spazio dedicato dai media al fenomeno, in termini talvolta ripetitivamente ossequiosi verso le posizioni più intolleranti, è, stando alle statistiche riportate, assolutamente sproporzionato.
Queste annotazioni dovrebbero far riflettere gli operatori dell’informazione e dovrebbero portare a chiederci fino a che punto conosciamo veramente il problema e fino a che punto pensiamo la questione in modo corretto utilizzando le informazioni fornite dai mass-media. In conclusione non si può non restare colpiti e ammirare un lavoro così notevole e così importante come questo. Una lettura mai noiosa bensì arricchente, stimolante e che aiuta a comprendere i tempi in cui viviamo.
In un freddo sabato di Gennaio ho approfittato del mio tempo libero al pomeriggio e sono andato al cinema, una delle azioni forse più educative che si possa compiere che si abbia venti, cinquanta o quindici anni. Stavolta Checco Zalone ha sbaragliato meglio delle altre volte il botteghino e soprattutto ha lasciato di stucco chi si sarebbe aspettato una comicità sbarazzina e scontata. Non voglio stare qui a raccontare il film perché gli articoli come questi, le recensioni, servono a indicare il motivo per muoversi di casa e scegliere di portarsi a casa un insegnamento, un motivo in più per dire che da domani cambio sguardo o almeno ci provo.
Tornando a Checco Zalone e a Tolo Tolo, reputo sia stato geniale usare come trailer la sua Immigrato, parodia di Italiano di Totò Cotugno, e poi mettere in scena uno spettacolo in cui si vede quasi un mondo alla rovescia, che da a volte l’idea di essere un razzismo al contrario, che forse è ancora più convincente di quando ci raccontano com’era la storia per gli italiani nel Nordamerica del primo Novecento. Zalone ha affrontato il tema dell’immigrazione portando alla luce il nostro comportamento. La cosa più straordinaria è essere riusciti a parlarne con una comicità leggera mostrando la volgarità tipicamente italiana che noi mettiamo. E soprattutto è riuscito ad affrontare quel tema senza buonismo, lasciando perdere la polemica e facendo uscire dalle sale un’altra visione dell’immigrazione, che esce dagli schemi e e capovolge la tendenza comune non solo perché fa vedere l’Italia del ventunesimo secolo, ma perché mette in mostra gli italiani di questi tempi che dell’Africa conoscono solo i villaggi resort e non si lasciano nemmeno un attimo per sbaglio toccare dal senso di empatia e da quel momento particolare della propria vita in cui ci si pongono domande esistenziali del tipo “perché io son così fortunato?”. C’è dentro l’assoluta ignobiltà di chi utilizza in modo improprio la bontà e la disponibilità per l’ascolto e la testimonianza. Da quel film esce la figura, a volte presente, del reporter sedicente che non ha solo l’obiettivo di documentare e sensibilizzare. Insomma il lavoro di Zalone è stato prendere una storia comune e metterci le eventualità probabilmente peggiori che possano capitare a un uomo dal suo fallimento in casa alla sua nuova vita in un altro continente passando per una decisione coraggiosa.
Dovremmo forse usare il mezzo del cinematografo per progettare. A volte la dimensione del grande schermo non è stralunata e fuori dal concetto di mondo, ma è in realtà più concreta e più reale di tanti discorsi sopra i massimi sistemi dell’universo fatti dalla qualunque.
Roman Polanski: “L’ufficiale e la spia”, ovvero della banalità e della grandezza del bene
Scritto da: Nicola F. Pomponio
Rimarrebbe deluso chi andasse a vedere l’ultimo film di Roman Polanski per assistere alla ricostruzione storica del famoso affare Dreyfus che scosse la Francia negli ultimi anni dell’Ottocento. Né rimarrebbe soddisfatto chi volesse vedere in questa pellicola la risposta del regista alle accuse del movimento #metoo. Certo ambedue gli aspetti sono presenti ma adombrano, soprattutto il primo, il punto di partenza per narrare non tanto la storia dello scandalo quanto il ruolo di chi quello scandalo ebbe il coraggio di denunciare mettendosi contro i propri superiori e i loro ordini in nome della preminenza della propria coscienza.
Il film ricostruisce, con dovizia di particolari e con un andamento da thriller, come l’antisemita colonnello Picquart giunga a riconoscere l’innocenza del capitano ebreo Dreyfus, accusato di spionaggio, e a individuare la vera spia che passava informazioni ai tedeschi. Subito Picquart, che in un primo momento era convinto della colpevolezza del capitano, avvisa i propri superiori dell’errore giudiziario ma tutte le alte sfere militari gli consigliano di lasciar perdere e poi lo osteggiano apertamente spedendolo in luoghi pericolosi, facendolo pedinare e, infine, arrestandolo. A questo punto Picquart entra in contatto con un piccolo ma determinato gruppo di innocentisti, costituito da uomini che fecero la storia della Francia come Zola e Clemenceau, i quali in base alle sue rivelazioni faranno riaprire il caso con un finale che, non descritto nel film, in realtà fu meno lieto di quanto si possa credere visto che, formalmente, Dreyfus non venne mai assolto da un tribunale militare e venne addirittura aggredito in strada nove anni dopo la grazia.
Questa la trama esteriore ed è una storia, a grandi linee, conosciuta da quasi tutti. La particolarità e la ricchezza del film sta nella ricostruzione, fedele, del personaggio Picquart. Il colonnello, magistralmente interpretato da Jean Dujardin, è un uomo che antepone alle proprie convinzioni personali, come un blando antisemitismo, il culto inflessibile per la Verità e la Giustizia, culto invero tutto laico e senza alcun riferimento religioso. Su questo tema si snoda il racconto e la rivendicazione della superiorità della legge morale rispetto a qualsiasi gerarchia che tale morale calpesta. Quella di Picquart è una sorta di religione civile in cui l’esercito ha il compito di incarnare, difendere la moralità e non calpestarla (si faccia attenzione al confronto con il suo sottoposto Henry); con questa convinzione interiore di ciò che è giusto e ciò che non lo è, Picquart ingaggia lo scontro con un sistema militar-giudiziario che, colpo su colpo, nega la verità e tenta d’imporsi, fino all’ultimo, con l’inganno, le falsificazioni, le menzogne.
La sceneggiatura segue passo passo questo scontro ricostruendo ambienti e personaggi con acume psicologico e dovizia di particolari. Di notevole interesse è l’ambientazione del palazzo del controspionaggio dove Picquart agisce in qualità di comandante. Il suo predecessore, tra i principali accusatori di Dreyfus, ne aveva fatto un luogo equivoco di incontri con i bassifondi e senza alcuna disciplina militare; i cambiamenti apportati nell’organizzazione (sostituzione di parte del personale, eliminazione dei rapporti “informali”, istituzione di un registro per annotare chi entrava e chi usciva ecc.) sono la razionalizzante proiezione esterna di un ordine morale interiore del protagonista. Così tra gli scricchiolanti pavimenti di legno dei palazzi della burocrazia militare e gli scintillanti salotti dell’alta società parigina, Picquart diventa il modello di un uomo che, trovandosi al centro di avvenimenti ben più grandi di lui, sceglie di agire in base alla voce interiore. Scelta non facile non solo per le conseguenze nella vita personale (e Polanski descrive bene a che livello di bassezza è disposto a scendere il Potere quando si sente minacciato) ma anche per la vita dell’intera Francia.
Il film, come detto, è interessato soprattutto al colonnello ma in almeno due casi allarga lo sguardo, velocemente, all’intera società francese. Significativa è la scena in cui gli “antidreyfusards” bruciano in un rogo lo scritto di Zola (“J’accuse”) a favore del capitano ebreo; è chiaro il riferimento ai roghi che poco meno di quarant’anni dopo in Germania sarebbero stati allegramente allestiti dagli studenti tedeschi. Ma ancor più significativo è un altro dettaglio che la sceneggiatura mostra quasi di passaggio e quindi rende ancor più interessante. Durante i vari processi intentati per la riabilitazione vengono mostrati gli ingressi dei personaggi al tribunale e mentre Picquart è sottoposto agli insulti della folla, i generali sono applauditi e osannati dalla stessa folla. Questo particolare rispetta, purtroppo, la realtà storica: i “dreyfusards” erano una piccola minoranza nella società mentre gli antisemiti rappresentavano la rumorosa e, in nuce, squadristicamente determinata fazione violenta inneggiante allo scontro fisico.
Con il saldarsi di antisemitismo e nazionalismo (i generali si autoproclamano veri rappresentanti degli interessi francesi) e con il relativo rogo di quanto ritenuto sbagliato l’orrore nazionalsocialista è alle porte. Se pensiamo poi che solo poco più di quarant’anni dopo centinaia di uomini diranno che hanno ucciso degli inermi nelle camere a gas perché così erano gli ordini, possiamo apprezzare la condotta del colonnello Picquart ma anche la debolezza, la fragilità di una coscienza umana in cui il male opera continuamente. Picquart, si è detto, agisce secondo coscienza e una volta scelta la via, la persegue sino in fondo. In fin dei conti per lui, per la formazione che ha, per il codice d’onore che lo sostiene non è difficile ascoltare la propria coscienza, è quasi banale, ma il tenere fermo alla propria coscienza rappresenta la vera grandezza di un oscuro ufficiale superiore francese. Picquart diventa cifra della possibilità del meglio.
Duemilatrecentoquaranta anni fa, nel 321 a.C. si consumò uno degli eventi più ingloriosi della storia di Roma. Le legioni consolari, bloccate tra due strette gole e circondate dai nemici sulle alture, dovettero arrendersi, senza combattere, alle bellicose tribù sannite; è l’episodio delle “forche caudine” in cui i consoli e tutti i legionari furono costretti a passare, seminudi, sotto un bastone in segno di sottomissione.
Ciò però non impedì che una ventina d’anni dopo i Sanniti (un insieme di popolazioni che controllavano l’Abruzzo, il Molise e la Campania settentrionale) fossero sconfitti e inglobati nei domini romani.
Di quelle lontane epoche non è rimasto molto ma due siti collegati a questo evento, ambedue in Molise, sono di grande interesse e suggestione e se ne consiglia la visita. Il primo, non lontano dal fiume Trigno che separa l’Abruzzo dal Molise, è il santuario italico di Pietrabbondante. Questo complesso, costruito tra il III e il I sec. a.C., è costituito da due templi e un teatro. Luogo principe di identità collettiva, Pietrabbondante non era riservata solo al culto ma anche alle decisioni politiche pubbliche. Il complesso si adagia sul dorso di una collina con un panorama, siamo a poco più di 1000 m. di altezza, mozzafiato. Alture fittamente boscose si stendono a perdita d’occhio mentre il santuario si articola in un grande tempio che sovrasta un ampio teatro, unico esempio dell’antichità in cui i sedili sono completati da schienali (!), e un altro tempio più piccolo a fianco del teatro. E’ dal tempio maggiore che lo sguardo spazia sia sul sito sia sulla vallata che si stende davanti; l’impressione è di una grande, solenne, composta austerità nonché di un tesoro ancora tutto da scoprirsi quando, osservando la zona non aperta al pubblico, si notano colonne e muri portati recentemente alla luce con gli scavi tuttora attivi.
Il santuario fu utilizzato fino al I secolo a.C. perché questa data segnò la fine delle popolazioni sannite come soggetti ancora in parte autonomi e la definitiva romanizzazione dell’area. Il tutto avvenne molto rapidamente, in meno di dieci anni. Nel 91 a.C. scoppiò la Guerra sociale (da “socii”, cioè alleati) in cui i Sanniti insieme ad altre popolazioni italiche insorsero per ottenere lo status di cittadini romani. Militarmente sconfitti, vinsero politicamente perché i Romani per terminare il conflitto riconobbero le loro rivendicazioni concedendo la cittadinanza a tutti i popoli al sud del Po. Ma pochi anni dopo i Sanniti (che avevano continuato lo scontro con Roma), coinvolti nelle guerre civili che porteranno alla fine della Repubblica e alla nascita dell’Impero, si schierarono contro Silla e il Senato e a favore dei “populares”. La sconfitta di questi nel 82 a.C. segnò l’inizio di un vero e proprio genocidio con l’eliminazione fisica e la crocifissione di migliaia di persone ed è in questo contesto che Pietrabbondante venne proibito come luogo di riunione e ben presto abbandonato.
A pochi chilometri dal santuario vale la pena visitare un altro sito archeologico che rappresenta la continuazione di questa storia e aiuta a comprendere cosa significò per queste terre la conquista romana. Ai piedi del massiccio del Matese, in pianura, lungo l’antico tratturo Pescasseroli-Candela e oggi sulla statale per Benevento, la città di Saepinum è un esempio illuminante per comprendere come la romanizzazione agì attraverso la fondazione di nuovi centri urbani. Questo luogo, che prende il nome da un antico insediamento sannita sui monti circostanti e distrutto dalle legioni nel 293 a.C., risale al I secolo d.C. ed è quindi posteriore solo di alcune decine di anni alla chiusura di Pietrabbondante ma vi si rinvengono, con una chiarezza ammirevole, tutte le caratteristiche delle città romane. Oggi è istruttivo percorrere le due vie principali, cardo e decumano, intersecantesi ad angolo retto e ben conservate, anche se bisognose di più manutenzione; ammirare i resti della basilica con colonne con capitelli ionici; osservare il teatro perfettamente leggibile o l’unico esempio che ci è giunto dall’antichità di mulino ad acqua.
Non mancano poi quei luoghi pubblici che caratterizzano le città romane nei tre continenti su cui si stendeva l’impero: le terme, il “macellum”, il foro. Insomma, nonostante siano passati una manciata di decenni dalla chiusura di Pietrabbondante, ci si ritrova in un ambito completamente diverso; lì era il luogo di ritrovo, in un ambiente dalla selvaggia bellezza, di popoli montanari con riti e cariche politiche comuni, qui è un ordinato “municipium” di pianura ben inserito in un grande impero con pratiche e cultura comune; lì vive ancora la fierezza per la propria autonomia, ma non più indipendenza, con l’esaltazione di una particolarità in contrasto con il mondo latino, qui è l’”Urbs” che domina, ma non lo fa più con la forza bensì inserendo il territorio in un ambito più vasto attraverso, si noti il particolare fondamentale, la cittadinanza e la cooptazione delle aristocrazie nel governo locale o addirittura in quello imperiale. Pietrabbondante e Saepinum rappresentano così due momenti diversi, vicini nel tempo e nello spazio, fondamentali nella storia dei popoli di questa parte d’Italia; nella prima popolazioni fiaccate, ma non ancora domate, si adeguano ai nuovi tempi con un santuario che risente delle caratteristiche costruttive ellenistiche pur mantenendo stilemi italici, come il rialzo dei templi, nella seconda si manifesta, sia urbanisticamente sia socialmente, il pieno inserimento di questi popoli nella “pax romana”.
Ma questi siti sono da mettere in connessione da un lato con il Museo Archeologico di Chieti, ove oltre al famosissimo Guerriero di Capestrano vengono ricostruite la storia e i caratteri di queste popolazioni prima della conquista romana, dall’altro con il piccolo ma brillantissimo gioiellino che è il Museo Archeologico di Corfinio. Questo paese in provincia dell’Aquila in epoca romana era una grande città e fu la capitale dei rivoltosi della guerra sociale.
Qui si trova un elemento di notevole interesse nel passaggio storico-politico tra Pietrabbondante e Saepinum. La preziosissima collezione numismatica del museo mostra, tra le tante, due monete coniate dai ribelli sulle quali in una il toro italico abbatte la lupa romana e, nell’altra, si raffigura il giuramento di fedeltà anti-romano delle popolazioni (“sacramentum”); in ambedue i casi è iscritta sulla moneta, per la prima volta nella storia in modo coscientemente politico in quanto simbolo dell’unione di tutti i popoli della penisola coalizzati contro Roma, il nome della nazione che si era ribellata: Italia!
Come si è detto è la prima volta nella storia che questo termine geografico assume valenza politica, ma è bene non perdere la testa dietro fantasime romantico-nazionalistiche o, peggio ancora, campanilistiche. Roma vinse sull’Italia non solo per la forza delle legioni ma soprattutto per la capacità di assimilare attraverso la concessione della cittadinanza, quello che allora era il “diverso”. Saepinum mostra questa abilità e apertura al nuovo che alla fine costituì la forza di un impero durato più di quattro secoli in cui non solo gli italici potevano aspirare ai più alti posti di comando ma potevano diventare imperatori uomini provenienti dalle più lontane periferie come l’Africa, la Siria, la Britannia, la Spagna e, addirittura, l’Arabia. Forse si può dire che l’assimilazione degli italici, ben rappresentata dalla parabola Pietrabbondante-Saepinum, divenne il modello per la costruzione di un impero in grado, in questo caso, di eliminare la grettezza e chiusura dei popoli montanari per inserirli in tutto il mondo mediterraneo e oltre. Forse questa fu la più grande vittoria che i Sanniti potessero riportare e che effettivamente riportarono sull’egoismo e le paure della parte più retriva e xenofoba delle classi dirigenti dell’Urbe.