La nostra fragilità, la nostra forza. Noi, nella battaglia di marzo. Di D. Brignoli

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Venerdì 28 febbraio. Il programma della serata prevede un incontro organizzato da tempo dal nostro “laboratorio culturale”. Titolo “Convivere con la morte”. Una serata di riflessione su un tema difficile, con un parroco, un pastore valdese, una filosofa. Da pochi giorni sono però entrate in vigore le restrizioni nei luoghi
pubblici. Cinema, teatri, incontri pubblici e privati, scuole, chiese, tutto chiuso, sospeso.

Per una strana coincidenza temporale, l’emergenza coronavirus, non consente di affrontare un tema di drammatica attualità come la rimozione della morte. Colpisce il commento della direttrice artistica del teatro Franco Parenti, Andrée Ruth Shammah, anche lei costretta a chiudere, dopo una strenua resistenza, il suo teatro, come già avevano fatto la Scala e il Piccolo. “Mi sono chiesta: cos’è che spaventa tanto? Cosa ha generato il panico? La tosse, la propagazione del virus? La morte ci manda in tilt. La rimuoviamo. Siamo una società che non sa più confrontarsi con la morte. Non abbiamo più codici. Questa esplosione del virus mi ha fatto capire quanto siamo impreparati di fronte alla morte. Anche l’influenza ha fatto centinaia di morti. Eppure non abbiamo chiuso teatri e musei. È vero, dobbiamo bloccare il virus, ma a non tossire in faccia alla gente a me l’ha insegnato la mamma».

Mi piacciono e convincono, in quel momento, le sue parole. Non sono consapevole, non lo siamo, siamo confusi, non siamo preparati, nessuno lo è. Non abbiamo riferimenti, la memoria corre ai tempi di Chernobyl: un incidente in una centrale a migliaia di chilometri e noi non possiamo mangiare l’insalata? La SARS, qualche settimana di psicosi generalizzata, i piccioni diventati all’improvviso nemici dell’umanità. Ma com’è possibile? Che succede? Come possiamo essere così fragili di fronte a uno stupido virus portato forse da un pipistrello, cresciuto in Cina e arrivato qui da noi chissà come?

“La situazione è grave ma non seria”, diceva Flaiano. Impressione, sconcerto, sorpresa, incredulità, un po’ di paura, ma in fondo non molta. #Milanononsiferma, e giù sorrisi, aperitivi ai navigli…

Il preside del Liceo Volta di Milano, mio vecchio compagno di Consiglio comunale, scrive ai suoi studenti una splendida lettera che fa il giro d’Italia. Non sottovaluta la situazione, ma invita ad approfittare di quei giorni di vacanza forzata per riflettere sul senso del nostro vivere, del nostro tessuto sociale, sul dovere di preservare la nostra umanità. “Se non riusciremo a farlo la peste avrà vinto davvero” conclude. Una raccomandazione che dovremo riprendere.

Domenica 1 marzo. Sono i giorni dell’incertezza, dell’incredulità, forse anche dell’incoscienza e dell’irresponsabilità. Da tempo abbiamo programmato un breve viaggio in Spagna. Consultiamo compulsivamente il sito “Viaggiare Sicuri”. Antonio, l’amico che ci aspetta a Barcellona, ci chiede dapprima se non ci siamo fatti prendere dalla psicosi, poi, dopo consultazione con l’ospedale dove lavora, di comune accordo decidiamo prudenzialmente di non incontrarci. Con un po’ di apprensione partiamo. A Malpensa nessun problema, l’aereo è pieno zeppo. A Barcellona niente di niente, per le strade di Barceloneta sfilano centinaia di persone mascherate cantando e ballando, le Ramblas sono invase da turisti di tutte le nazionalità, la fondazione Mirò, il martedì mattina, è affollata di scolaresche… La sera, sull’autobus per l’aeroporto, il passeggero davanti a noi, prima di scendere, si barda come un astronauta. Sarà sul nostro stesso volo per Milano, ancora una volta pieno zeppo. Al terminal è però il solo a indossare la mascherina, eppure quasi in contemporanea partono tre affollatissimi aerei: Milano, Roma e Ginevra le destinazioni. In spagnolo destino… All’arrivo a Malpensa il primo e unico filtro: due gentili ragazze ci puntano alla fronte un rilevatore di temperatura: “Prego, passi pure”.

Poche ore, pochi giorni e la situazione cambia radicalmente. Troppi contagiati, troppi morti. È sconcertante, siamo noi che esageriamo o sono gli altri che minimizzano? Amici e parenti ci chiamano dalla Svizzera preoccupati per noi, noi siamo preoccupati per loro e per amici e parenti in Spagna, Germania, Inghilterra… Contenere, distanziare, arginare, zone rosse, zone gialle, mobilità limitata, #Milanononsiferma diventa #iorestoacasa. Strade deserte, negozi chiusi, assalto ai treni e ai supermercati, forze dell’ordine a presidiare le strade, il permesso da compilare per uscire di casa. #AndràTuttoBene è un auspicio, non una certezza…

Una inimmaginabile realtà ci travolge e ci coglie impreparati e indifesi. Non abbiamo parametri, riferimenti. La guerra forse, non sono più molti quelli l’hanno vissuta. La nostra generazione al massimo ricorda le domeniche senza auto per la crisi petrolifera o le città deserte ai tempi del terrorismo. Nulla di paragonabile.

Questa imprevista realtà ha messo a nudo, ma forse sarebbe più corretto dire “ci ha sbattuto in faccia” le nostre fragilità, pubbliche e private, psicologiche e di sistema, di persone e di istituzioni.

Abbiamo paura. Che sarà quel lieve bruciore alla gola? Ho tossicchiato, sarà un po’ di pulviscolo o il maledetto virus? Quella ragazza seduta al tavolino accanto a me in quel bar di Milano che tossiva in continuazione sarà mica stata di Codogno?

La stagione turistica è compromessa, le prenotazioni sono tutte annullate, gli alberghi non riaprono. La maggior parte dei lavoratori sono stagionali, hanno lavorato l’anno scorso, hanno usufruito della disoccupazione ormai conclusa. E adesso?

Sono un artigiano, guadagno per quel che produco e  vendo. Per il momento posso andare al lavoro, ho delle ordinazioni da evadere, qualche prodotto che tengo in laboratorio e quando sarà passata la bufera lo consegno e incasso. Almeno spero. Ma quando?

Pensavamo di essere quasi immortali, che la scienza ci avesse messo al riparo da quasi tutto. Arriva ‘sto virus e ci troviamo a doverci difendere lavandoci le mani e isolandoci come ai tempi della Spagnola, di Manzoni, di Boccaccio.

Speravamo avessimo sconfitto il razzismo. Abbiamo sentito un presidente di regione dire che i “cinesi mangiano topi vivi, li abbiamo visti tutti”. Poi saranno i cinesi a darci una mano.

Andavamo fieri del nostro federalismo, della riforma del titolo V, delle autonomie locali. Abbiamo rischiato il corto circuito. Così come per il nostro sistema di welfare, il nostro servizio sanitario; per anni lo abbiamo indebolito, ora ne paghiamo il conto. E chi di sanità si occupa in prima persona è costretto a impegni da eroe.

L’Europa, il mondo, la globalizzazione… non bastava l’emergenza climatica a farci capire che le questioni sono globali e che nessuno si salva da solo. Qualcuno pensa ancora di fermare il virus chiedendogli di mostrare passaporto e visto d’ingresso alla frontiera e “non siamo mica qui per curare lo spread”.

Potremmo andare avanti all’infinito ad elencare quanto fragili siamo noi e quanto lo siano istituzioni, convincimenti, stili di vita, politiche, sviluppo, scelte economiche. Ma anche il coronavirus prima o poi passerà, lasciandosi una scia di sofferenze ma pure la lezione che molto avremo da correggere, tanto da ripensare, ridisegnare, ricostruire. Una nuova partenza. Un welfare che non lasci indietro nessuno. Un servizio sanitario non più indebolito ma anzi rafforzato, che non costringa nemmeno a ipotizzare che toccherà scegliere chi curare e chi no. La ricerca non più lasciata alla buona volontà dei singoli perché ancora molto c’è da scoprire per proteggere un’umanità che all’improvviso ci accorgiamo essere ancora terribilmente fragile. Un ripensamento  del mondo del lavoro che troppi ha escluso, emarginato, indebolito, relegato a un precariato senza diritti e garanzie, vittime di un neoliberismo feroce che non dà scampo. Un’Europa casa comune, patria di tutti, capace di includere e abbracciare non più soggetta agli interessi di anacronistici stati nazionali incapaci, inadeguati e impotenti di fronte a sfide globali che se ne fregano delle nostre ridicole  frontiere. Un mondo che si prenda in carico il bene del pianeta, dell’umanità, senza che sia l’interesse economico a prevalere, a partire dalle emergenze di un clima impazzito che come il virus non conosce confini. Un compito immane, che le strade deserte di oggi, la nostra forzata reclusione ci ricordano quanto urgente e inevitabile sia. Occorrerà umanità, senso di comunità. Adesso nel momento dell’emergenza e domani quando dovremo ricostruire. Solo così la peste non avrà vinto.

Una nota positiva per concludere. Non mancano per fortuna persone che stanno dando prova di serietà, di coraggio, per niente fragili. Sconosciuti medici e infermieri che lavorano senza sosta e senza paura, illustri scienziati che si stanno dannando per trovare una via d’uscita, politici che stanno finalmente restituendo il giusto valore a un termine caduto in disgrazia. Più di tre anni fa, la prima volta che incontrai Roberto Speranza di lui scrissi: Speranza è bravo, convincente, pacato; non so se abbia o meno la stoffa del leader, sicuramente non è uno sbruffone, è persona seria e questo mi piace. Oggi sta dimostrando di essere quella persona seria che avevo visto in lui; un ruolo da far tremare le vene e i polsi, eppure sempre misurato, attento, responsabile, umile nell’impegnarsi senza troppo apparire, sincero nel comunicare onestamente la verità anche se scomoda, risoluto nell’assumere decisioni che nessuno vorrebbe prendere. Di lui così parla Walter Ricciardi, che un anno fa se ne era andato in polemica con le scelte del governo di allora e proprio da Speranza richiamato a collaborare:    Sono rimasto sorpreso dal ministro Roberto Speranza, che ho conosciuto tre giorni fa. È una persona perbene, cerca di risolvere una situazione che metterebbe a dura prova qualsiasi politico. Avrei comunque detto sì alla richiesta del ministero, ma ora sono anche più convinto.

Grazie anche a te ministro! Un abbraccio.

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